Immigrazione come paura o
immigrazione come risorsa? Non è facile rispondere a questa
domanda che continua ad essere presente nel dibattito politico europeo e divide
l’opinione pubblica internazionale tra chi considera l’immigrazione un
pericolo, dunque la fonte delle nostre paure, e chi, invece, la ritiene una
risorsa e un’opportunità. Entrambe le ipotesi, ovviamente, hanno un fondamento
di verità. La paura, in prevalenza, poggia sugli stereotipi “dello
straniero” che noi tutti abbiamo ereditato culturalmente, ma è anche la
conseguenza di gravi episodi di cronaca i cui protagonisti sono persone appartenenti
ad altre culture. Sul versante opposto invece si attestano le esperienze
di piena integrazione dei migranti e di progresso delle società multietniche.
LE MIGRAZIONI NELLA STORIA
DELL’UOMO
Le migrazioni fanno parte della storia
dell’uomo: dalla narrazione biblica della fuga attraverso il Mar Rosso degli
israeliti guidati da Mosè (raccontata nel Libro dell’Esodo e citato anche in
una Sura del Corano) fino agli sbarchi di quest’inizio di millennio, il
fenomeno è la risultante di una scelta, quasi sempre obbligata, di chi si
lascia alle spalle condizioni ambientali, sociali, economiche, religiose,
politiche che sono tra i principali ostacoli alle libertà individuali o di
gruppo.I flussi migratori sono un fenomeno sociale che riguarda due diverse
realtà geografiche, ognuna con proprie caratteristiche antropologiche,
sociali e culturali: il luogo d’origine dell’emigrazione e quello di
destinazione di questa grande massa di uomini, donne e bambini.
IMMIGRAZIONE COME PAURA?
La risposta, specie in queste ultime
settimane, non è sempre svincolata dalle emozioni e dai pregiudizi, rafforzati
da avvenimenti come quelli di Parigi, di Bruxelles o dell’assalto all’albergo
in Mali ( ne citiamo solo alcuni). Nella società postindustriale, sempre
più dominata dalle tecnologie informatiche e telematiche, il sentimento della
paura, dall’11 settembre in poi, unisce l’Occidente. “Viviamo
in una società in cui ci sentiamo spesso minacciati: la mondializzazione, le
catastrofi naturali, la crisi economica, le difficoltà della vita quotidiana.
Abbiamo la sensazione di non riuscire più a far fronte a minacce che sono
spesso indefinite e imprevedibili. Ci sentiamo senza difese e incapaci di
agire, di conseguenza abbiamo paura”… “Una paura indistinta che trasferiamo
sugli altri, soprattutto sugli stranieri”.(1)
Nell’ultimo mese il mondo è rimasto
completamente in ostaggio del panico che ha costretto milioni di uomini a
cambiare abitudini. A volte l’incubo si materializza e diventa una
realtà di sangue: Parigi, 13 novembre 2015, ma non soltanto nella capitale
francese. Le statistiche non addebitano ai fenomeni migratori
l’origine di tutte le nostre paure, anche se da più parti si accredita il
contrario. L’incertezza e la disgregazione sociale, le maggiori fonti
delle nostre paure, sono l’humus della xenofobia. E attraverso questo
sentimento – secondo Alain Tourain – “si manifesta la paura di chi, al di
là del passaporto, è diverso da noi fisicamente, ma anche sul piano della
cultura, della religione o degli stili di vita. Le caratteristiche dell’altro,
però, sono solo un pretesto per poter proiettare su di esso le nostre
angosce”. (2)
Nella società globalizzata – sempre più
incerta, flessibile, pronta a delocalizzare qualsiasi attività lavorativa in
nome del liberismo e del profitto -, le nostre angosce ci portano finanche a
negare l’umanità dell’altro “dichiarandolo non umano in quanto integralmente
diverso da noi”. Al sociologo transalpino fa eco, Bauman il quale
considera questo sentimento – la paura – “il demone più sinistro
tra quelli che si annidano nelle società aperte del nostro tempo”. E
sottolinea che “sono l’insicurezza del presente e l’incertezza del futuro che
alimentano la più spaventosa e insopportabile delle nostre paure. Questa
insicurezza e questa incertezza, a loro volta, nascono da un senso d’impotenza:
ci sembra di non controllare più nulla, da soli, in tanti o
collettivamente”. (3) Un concetto, questo, che va ben oltre il
timore per la sicurezza fisica dei singoli e delle comunità. Per noi cittadini
della postmodernità la condizione peggiore – come sottolinea David L. Altheide
– “non è la paura del pericolo, ma soprattutto quello in cui questa paura può
trasformarsi, ciò che può diventare”. (4)
Da più parti, infatti, viene manifestato
il timore che gli immigrati siano portatori di nuove malattie, di
contaminazione culturale, di criminalità, di terrorismo e, soprattutto che
rubino il lavoro ai residenti. E così si diventa intolleranti, diffidenti,
sospettosi fino alla paranoia, insofferenti alla presenza di queste persone
che, giornalmente, vediamo ferme ai semafori, incontriamo nelle stazioni
ferroviarie e alle fermate del tram. O ancora, le notiamo in fila all’entrata
delle mense parrocchiali, o a svolgere compiti di fatica nelle rivendite di
frutta, o come manovali nell’edilizia, garzoni del fornaio o del pizzicagnolo e
di altri lavori bracciantili di cui, ormai, il mercato nazionale è privo di
offerta.Insomma, scarti di una grande discarica sociale: uomini sfruttati che
vivono i loro giorni in semischiavitù: un euro per ogni cassetta di clementine
raccolte negli agrumeti del Sud che a fine giornata – per un impegno che
dura ininterrottamente da prima dell’alba fino a tarda sera – equivale a un
salario di 25 euro, al lordo della percentuale trattenuta dal caporale. Questa
condizione l’abbiamo documentata nel corso di una delle puntate – quella
sull’immigrazione – del programma televisivo “Filo Diretto”, condotto da chi vi
parla e gratificata dalla collaborazione dei colleghi sociologi del
Dipartimento Calabria.
IL COMUNE DENOMINATORE DELL’IMMIGRAZIONE
In passato come nel presente,
l’immigrazione ha un comune denominatore: la fuga dal paese d’origine verso
mondi lontani e sconosciuti, che sono culturalmente, socialmente ed
economicamente diversi. Il sogno del modello occidentale che, nella
realtà, spesso si rivela, se non peggiore, quanto meno molto differente da come
lo si aspettava. E’ vero: nei paesi d’arrivo queste persone creano
problemi, alimentano paure, mentre in quelli d’origine spesso vengono
additati come egoisti che voltano le spalle ai familiari, abbandonandoli al
loro destino e nell’incertezza del futuro. Come nei secoli scorsi anche
oggi assistiamo a fughe di massa in cerca di un futuro migliore. August
Deaton, Nobel per l’economia 2015, ne “La grande fuga”, sostiene che gli uomini
tendono naturalmente a fuggire dalla miseria, ma non tutti e non tutti assieme.
“La fuga più grande nella storia dell’umanità – si legge tra l’altro nell’opera
pubblicata lo scorso mese dall’editrice il Mulino – è la fuga dalla povertà e
dalla morte. Per migliaia di anni le persone che, favorite dalla sorte, erano
sfuggite alla morte nell’infanzia hanno dovuto poi affrontare un’esistenza
nella più sconfortante miseria”. Ed ancora: “La grande fuga ha cambiato
radicalmente le cose per quelli di noi che sono diventati più ricchi, sani,
robusti e colti dei propri nonni. Ma ha inciso profondamente anche in un senso
diverso e meno positivo: perché buona parte della popolazione mondiale è stata
lasciata indietro, perché il pianeta è immensamente più disuguale di
quanto fosse trecento anni fa”. (5)
IL PASSATO CHE RITORNA
Tra la fine dell’Ottocento e la Prima
Guerra mondiale quasi cinquanta milioni di persone lasciarono l’Europa per
nuove destinazioni. In quasi tutti i paesi del Vecchio continente, Italia
compresa, la gente viveva un’esistenza precaria, le fasce di povertà
continuavano ad aumentare coinvolgendo anche quei territori che prima erano
stati la meta preferita dalla migrazione interna: ricordiamo la fuga dalle
campagne con destinazione le città industriali. La prospettiva di
migliori salari offerta dai paesi d’oltre Oceano divenne il sogno di una grande
massa di persone. Con il loro lavoro, gli immigrati hanno
contribuito al benessere e allo sviluppo dei paesi ospitanti ed aiutato le
famiglie d’origine a uscire dallo stato di povertà e, soprattutto, ad
affrancarsi dall’obbligo di mettere le braccia dei componenti dell’intero
nucleo familiare al servizio della borghesia agraria. Durante il
periodo della Prima guerra mondiale, i flussi migratori, in sintonia con le
politiche restrittive dei vari Stati, subirono una forte contrazione per
riprendere alla fine del conflitto.Un fil rouge lega le narrazioni
migratorie che hanno caratterizzato l’Ottocento e gli inizi del Novecento
con quelle del secondo millennio: il mare, i naufragi, la ghettizzazione, le
espulsioni, un’esistenza priva di regole. Le carrette del mare di oggi
sono i bastimenti di ieri. Questi ultimi divennero l’emblema del sentimento
nazionale dell’emigrazione all’estero (Ricordiamo la famosa canzone napoletana,
Santa Lucia).
I FLUSSI TRA L’ OTTOCENTO E IL NOVECENTO
Nel periodo a cavallo tra l ‘800 e il
‘900, “1/3 della forza lavoro europea si trasferì nel nuovo mondo:
gli Stati Uniti ne assorbirono i 2/3, tanto che un terzo dell’aumento di forza
lavoro americana veniva imputato alla manodopera americana immigrata…
Anche se questa quota significativa e crescente di immigrati dopo qualche
anno di lavoro tornava a casa, questa emigrazione di massa rappresentò un
trasferimento di popolazione senza precedenti nella storia che ebbe effetti
profondi e duraturi sulla distribuzione mondiale della popolazione, del
reddito e della ricchezza”. (6) “Dopo la seconda guerra
mondiale, al sistema migratorio centrato sull’Europa è invece andata
subentrando una rete di sistemi migratori interconnessi. Accanto a quello
europeo troviamo oggi il sistema formato da Canada, Stati Uniti che, a
differenza di un tempo, non attrae più migranti dal ‘Vecchio continente’, ma dall’Asia,
dall’Africa, dai Caraibi, dall’America Latina. Gli altri tre grandi sistemi
contemporanei sono quelli dei paesi del Golfo che importano forza-lavoro
soprattutto dal Sudest asiatico; quello del Giappone e delle ‘tigri’ dell’Asia,
che attraggono migranti dall’area del Pacifico; infine quello del cono sud
dell’America meridionale che attrae popolazione soprattutto all’interno del
continente”. (7)
Di fronte all’interconnessione di queste
reti del nomadismo, l’Europa diviene, al tempo stesso, continente di emigranti
e di immigrati. “In alcuni paesi come la Francia, il numero di nati all’estero
della popolazione era alla fine dell’Ottocento pari o superiore a quello dei
paesi dell’immigrazione del Nord America” (8) (oggi la
Francia conta oltre cinque milioni di immigrati).“Le origini dei flussi
d’immigrazione verso l’Europa sono tuttavia per un lungo periodo intereuropei,
e trovano origine nell’Europa orientale, meridionale, balcanica”.(9) Negli
ultimi otto anni (secondo dati dell’Alto Commissariato delle Nazione Unite per
i rifugiati) 875 mila migranti o profughi sono arrivati in Europa via mare: lo
0,17 % dell’intera popolazione del Vecchio Continente (poco più di 500 milioni
di abitanti). E le stime dell’OCSE prevedono che il 2015 segnerà un numero
senza precedenti di immigrati e di richiedenti asilo: cifra che potrebbe
superare i 450 mila. Si tratta, senza dubbio, del più alto numero dalla fine
del secondo conflitto mondiale.
IL FLUSSI MIGRATORI VERSO L’ITALIA
“Per quanto riguarda l’Italia, il suo
ingresso nel sistema migratorio europeo avviene quasi in sordina e
comunque tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 del ‘900. E’
purtroppo difficile sapere con precisione quando tale ingresso ha avuto luogo,
dato che le politiche migratorie italiane si sono basate per un lungo periodo
sul rifiuto di riconoscere l’esistenza di flussi d’immigrazione”.(10) Nel
1969 secondo i dati del Ministero dell’Interno erano 164 mila i permessi di
soggiorno, mentre alla fine del 2002 sono oltre un milione e mezzo, di cui solo
una piccola frazione riferita a cittadini provenienti da paese
sviluppati.Viviamo in un periodo di crisi globale e la presenza di nuove
tecnologie porta ulteriori diseguaglianze, ma non dobbiamo dimenticare da
dove sono partiti i nostri avi (nonni e bisnonni) e verso quali mondi si sono
diretti per rimanervi temporaneamente o definitivamente.
GLI ULTIMI DATI ISTAT
Secondo i dati Istat, al 1° gennaio
dell’anno che volge al termine in Italia (il dato è stato pubblicato giovedì 22
ottobre scorso) sono regolarmente presenti 3.929.916 cittadini non comunitari,
mentre il numero di irregolari sarebbe di trecentomila persone. Questi
ultimi sono un problema: una parte viene adibita al lavoro irregolare ma una
parte vive di espedienti o finisce in carcere per reati, in prevalenza, contro
il patrimonio. E la delinquenza è un costo sociale ed economico. Infatti,
più del 39% della popolazione carceraria del nostro paese è composta da
stranieri e ciò evidenzia il ritardo nel processo di integrazione. Secondo un
calcolo del Sole 24 ore: sbarchi, soccorso e assistenza gravano sul bilancio
italiano per circa un miliardo di euro, un costo che sommato a quelli sociali
lieviterebbe fino a dieci miliardi. Cifra – come vedremo più avanti
– nettamente inferiore ai benefici economici legati al sistema
dell’integrazione. Alcuni dati ci consentono di rispondere alla seconda
parte del nostro quesito: “Immigrazione come risorsa?”. Per Papa Francesco, i
“paesi che accolgono traggono vantaggi dall’impegno degli immigrati per le
necessità della produzione e del benessere nazionale”. Intanto perché
l’immigrazione pone rimedio al problema della nostra denatalità.
L’invecchiamento della popolazione, tuttavia, non è solo un problema italiano
ma dell’intera Europa che – come ha detto ancora il Pontefice “ a causa
della crisi demografica è diventata nonna Europa”.
IMMIGRATI IMPRENDITORI
Lo scorso anno sono nate in Italia 23
mila imprese individuali di extracomunitari, facendo arrivare il numero
complessivo a oltre le 350mila unità, che sommate alle società di capitali
supera il mezzo milione di imprese. Il rapporto è di 1 a 10 rispetto alle
imprese nelle mani di italiani che, lo scorso anno, hanno registrato una
decrescita di 35 mila aziende. Il 19,17% di questi imprenditori proviene
dal Marocco (64.300); il 14,02% dalla Cina (47.020); il 9,15% è albanese
(30.703). Lo scorso anno quasi 5 mila imprenditori extracomunitari sono
giunti finanche dal Bangladesh.
Nella graduatoria delle regioni con la
maggiore presenza di cittadini extracomunitari troviamo la Lombardia, seguita
dal Lazio e dalla Toscana. I settori gestiti da immigrati sono prevalentemente
l’agricoltura, l’attività manifatturiera (specie i cinesi), la ristorazione, i
servizi, le costruzioni, il commercio e il trasporto, le agenzie di viaggi, le
comunicazioni.
Il Corriere della Sera, in un sevizio
Gian Antonio Stella, un anno fa, ha riportato i risultati di due rapporti
– della Fondazione Leone Moressa e di Andrea Stuppini
(<<lavoce.info>>) – che hanno evidenziato come le imprese
create dagli immigrati residenti nel nostro Paese rappresentino l’8,2% del
totale, per un valore aggiunto di 85 miliardi di euro; in questo quadro, nel
rapporto dare–avere a guadagnarci è l’Italia. Un dato – riferito al 2012
– evidenzia che i contribuiti dei nati all’estero sono poco più di 3,5 milioni
con un reddito dichiarato di 44,7 miliardi, su un totale di 800 miliardi, con
un’incidenza del 4,9% sull’intera ricchezza prodotta. L’imposta netta versata
in media è di 2.099 euro, pari a 4,9 miliardi. Con enormi disparità di Irpef
procapite tra le regioni ricche come la Lombardia e quelle del Mezzogiorno.
Inoltre la propensione al consumo delle famiglie straniere residenti in Italia
è pari al 105,8%; i contributi previdenziali – secondo i dati INPS, riferiti al
2009 – sono il 4,9% del totale di 8,9 miliardi. E così tra gettito
fiscale e contributivo e le entrate riconducibili a questa presenza, il nostro
erario introita 16,6 miliardi di euro. Dalle entrate/ uscite abbiamo un saldo
attivo di 3,9 miliardi di euro.
I dati testé illustrati ci
consentono di sfatare molti luoghi comuni sull’immigrazione: prima fra
tutti quello secondo cui gli immigrati ci tolgono posti di lavoro. Gli studiosi
di scienze sociali nel dimostrare il contrario usano la formula 3D:
dirty, dangerous, demanding ( sporco, pericoloso, faticoso). Sono le
caratteristiche delle occupazioni degli immigrati – dai
badanti ai braccianti ai raccoglitori di pomodori – in settori da cui
soprattutto i nostri giovani si tengono alla lontana. L’esempio degli Stati
Uniti e della Germania impedisce di mettere in relazione la presenza
degli immigrati con la nostra disoccupazione, soprattutto nel Mezzogiorno. In
Usa la disoccupazione è al 6% nonostante gli immigrati rappresentino il 12% (cioè
46 milioni) della popolazione; e in Germania la disoccupazione è al 5%
ancorché la cifra d’immigrati superi i 10 milioni. Forse noi italiani
dovremmo chiederci quanti immigrati vengono utilizzati nel sommerso? A
guadagnarci sono alcuni datori di lavoro senza scrupoli a tutto danno dello
Stato e del lavoratore straniero. Ed allora occorre pensare apolitiche
migratorie responsabili, non restrittive ma di sicurezza: capaci di
agevolare l’integrazione, considerando l’accoglienza un dono di “concepito nella
sua accezione contemporanea come il prodotto di una idealizzazione portata
avanti da duemila anni di Cristianesimo, per cui si parla di dono solo quando
questo è assolutamente gratuito, unilaterale, senza aspettativa di ricambio: in
poche parole disinteressato”. (11)
Ma queste politiche non possono non
tenere conto della tutela dei diritti di chi rimane a casa propria. Perché –
secondo Paul Collier, autore di “Exodus: il tabù dell’emigrazione” –
questi flussi di disperati potrebbero rappresentare “un atto d’imperialismo
alla rovescia: la vendetta di antiche colonie”. Ed il rischio è “che nei paesi
ospitanti, i migranti costruiscono colonie che assorbono risorse destinate ai
ceti meno abbienti della popolazione locale, con cui entrano in competizione e di
cui minano i valori”. (12)
Immigrati sinonimo di terrorismo? Ci
sono scarsi elementi per sostenerlo in assoluto. Il terrorismo, è vero,
approfitta del disagio della società postmoderna, fa leva sugli integralismi
religiosi, si salda con la delusione di milioni di esseri umani espulsi dal
sistema produttivo liberale e ormai privi del paracadute dello stato sociale
per fare nuovi adepti. E in questo momento pensiamo alle banlieue francesi o al
Molenbeek di Bruxelles e ad altre parti del pianeta abitate dagli ultimi, da
cittadini che non hanno voce. Se si vuole che l’immigrato sia più risorsa
che paura, occorre cambiare le politiche dell’accoglienza e dell’integrazione.
Altrimenti, con i ritmi attuali ed i numeri che caratterizzano questo epocale fenomeno,
l’immigrato si trasformerà in una sconfitta per tutti: per il territorio che lo
espelle, per quello che lo accoglie e, soprattutto, per l’Europa che non
ha saputo capire e gestire per tempo questo problema.
Così, la domanda che ci siamo posti
all’inizio – immigrati come paura o come risorsa? – rischia di rimanere senza
risposta. Una riflessione, a nostro avviso, destinata a restare irrisolta fino
a quando si continuerà a parlare di “flussi migratori” e non di popoli, di
numeri e non di persone in carne e ossa, quali i migranti sono. Occorre
cambiare non solo le politiche dell’immigrazione ma anche il nostro approccio
culturale con chi proviene da un altro Paese. Con l’obiettivo di accogliere e
integrare quanti sono disposti a vivere con noi, senza essere obbligati a
cambiare ma senza neppure avere la pretesa di cambiarci: emblematica la vicenda
della scuola di Rozzano dove il dirigente scolastico nei giorni scorsi ha
praticamente “vietato” il Natale. Serve un processo di osmosi socio-culturale,
perché la diversità non sia motivo di conflitto ma condizione di pacifico
arricchimento della società, oggi globalizzata e dunque irreversibilmente
destinata a essere aperta, pluralista e multietnica.
Antonio Latella – Giornalista professionista e sociologo
Note
·
1 e 2 – Alain Tourain : “Quando lo straniero diventa una minaccia” ( Intervista
Corriere della Sera); 3 – Zygmunt Bauman: “Danni
collaterali”; 4 – David Altheide: “Come di media costruiscono la paura”-
appendice de “Il demone della Paura” di Zygmunt Bauman.; 5- August Deaton
– “La grande fuga”; 6 – Francesca Fauri “ Storia economica delle immigrazioni
italiane”; 7, 8, 9, 10 – A. Colombo – G. Sciortino – “Gli immigrati in Italia”;
11- Marcell Mauss: “Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società
arcaiche”, nell’interpretazione di Umberto Zannino nell’edizione del 2002
(Einaudi Editore); 12 – Paul Collier: “Exodus”.
Relazione al convengo “Immigrazione
oggi: impatto sociale”. Firenze il 4 dicembre 2015 – e pubblicato su www.sociologiaonweb.it (4 dicembre
2015)
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